Sant’Osvaldo 27 agosto 1917

Nel grande fabbricato del Manicomio ad un paio di chilometri dalla città di Udine – trasformato nel febbraio del 1916 in ospedale militare – erano stati concentrati grossi depositi di munizioni, parte in casa Pellegrini, parte in numerose baracche. La «guardia» che esercitava la sorveglianza su questo enorme concentramento di munizioni era comandata da un sergente, e a quanto pare i soldati «dormivano sempre a paglia sciolta e con lume a fiamma libera».
L’ospedale militare era diretto  dall’allora maggior medico prof. Frugoni, poi rettore della clinica di Roma. Gli ammalati di mente – oltre 600 – che all’inizio della guerra si trovavano nel Manicomio provinciale, erano stati, a cura dell’amministrazione, trasportati altrove: a Vicenza, a Venezia, a Reggio Emilia, a Volterra. Si era invece disposto per un reparto di accettazione di questi infelici all’ospedale civile. Il direttore del Manicomio prof. Gino Volpi Ghirardini che risiedeva pure sempre all’ospedale psichiatrico, ove erano stati conservati gli uffici della direzione e di amministrazione per i manicomi succursali, veniva in città quotidianamente al mattino, per attendere nell’ospedale ai pochi ricoverati nel reparto di accettazione.
L’ospedale psichiatrico provinciale si era così trasformato in «Ospedale militare di Sant’Osvaldo» con reparti per neuro psicopatici, per autolesionisti, per malati in genere di medicina e di chirurgia, ed ospitava un complesso di circa 1400 degenti.
Qualche giorno prima, nello scaricare alcune cassette di munizioni, una era esplosa uccidendo un soldato, e ferendone altri. E la mattina del 27 di agosto, alle ore 11 «preceduto da un sordo tambureggiamento e seguito dallo sconvolgimento convulso di tutti gli elementi, il fragore formidabile di un primo scoppio gettava – per un vastissimo circuito – l’allarme ed il terrore tra la popolazione. A breve distanza – seguito dal sinistro rullo di piccoli colpi – un secondo scoppio, più violento e fragoroso, terrificante come lo schianto simultaneo di mille cannoni, sommoveva la terra squassando ruinosamente i fabbricati e spostando impetuosamente l’aria tutt’intorno oscurata e densa d’ignei vapori».
Dei soldati addetti ai depositi non si trovò nessuno, tutti scomparsi; si salvarono invece nella maggior parte quelli che si trovavano ricoverati all’ospedale del Manicomio, parecchi dei quali fuggirono per le campagne buttandosi sulle spalle solamente la coperta che avevano sul letto. Taluno soccombette a tanto travaglio e fu rinvenuto cadavere alla distanza di qualche chilometro dall’ospedale, steso sul ciglio della strada, ove era caduto, sfinito per gli stenti della giornata, o forse fiaccato dallo stesso spavento. Le case distrutte si contarono in numero di ottanta, quelle gravemente danneggiate – compresi i fabbricati industriali – oltre un centinaio, mentre la zona tutto intorno apparve siccome desolato campo di battaglia.
Quando giunsero i soccorsi a San Osvaldo la strage era però già avvenuta, e molti giacevano stecchiti nella case diroccate, tra le rovine fumanti, o sui campi bruciati. Le vittime contate in quel giorno sommarono a ventisette tra la popolazione civile, a ventinove tra i militari, ma la cifra apparve tosto inferiore alla realtà, perché alcuni morirono giorni dopo in seguito alle ferite riportate, e qualche altro fu rinvenuto cadavere dopo rimosse tante macerie.
Per alcuni giorni il disastro fu come non avvenuto, perché la censura proibì ogni accenno, e sui giornali si lessero solamente o avvisi pubblicitari di chi offriva vetri a buon prezzo, o di chi ricercava operai, o lunghi elenchi si leggevano di feriti medicati all’ospedale, o disperati appelli di madri che ricercavano i figlioletti smarriti nel tragico trambusto.
E poiché ognuno, a conforto proprio, voleva dir la sua circa le cause che potevano aver provocato l’esplosione vi fu taluno che affermò trattarsi di un attentato anarchico, tal altro di vendetta o di losco maneggio di spie, mentre maggior parvenza di sincerità e più creduti furono quelli che narrarono di aver veduto, pochi minuti prima che avvenisse il sinistro, librarsi su San Osvaldo un aeroplano che tosto scomparve alla prima fragorosa esplosione.

Estratti da Giuseppe Del Bianco La Guerra e il Friuli, Del Bianco Editore, Udine, 2001