Vitaliano Trevisan: ricovero coatto e suicidio

Mai capito [chi fossi], neanche adesso se è per questo. Diverso. So solo questo. Tutti lo pensano di se stessi, e molti, troppi, si agitano per dimostrarlo; ma chi è portato davvero a uscire dalla norma, tenterà sempre di mimetizzarsi tra gli altri, e non gli riuscirà; si comporterà in modo da non dare nell’occhio, e sarà notato; cercherà di nascondersi, e sarà scoperto, perché, in fondo, essere scoperto è esattamente ciò che vuole, essendo, altrettanto in fondo, fiero della sua cazzo di diversità, che inevitabilmente, isolandolo dagli altri, lo renderà insicuro e così via. E d’altra parte, sarebbe stupido che un giglio rosso tentasse di nascondersi in basso, a pelo d’acqua, tra le fegatelle, dove si sentirebbe molto più al sicuro: se la cosa gli riuscisse, non sarebbe un giglio rosso. O avrebbe rinunciato a esserlo. È il prezzo da pagare, quello che, implicitamente, mi era sempre stato chiesto di pagare.

Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi, Torino, 2016, p. 418

Vitaliano Trevisan dal 3 al 13 ottobre 2021 ha subito un ricovero psichiatrico. A distanza di poco più di due mesi – il 7 gennaio 2022 – ha deciso di porre fine ai suoi giorni.

Cerchiamo di mettere in fila un po’ di materiale che riguarda questi due episodi della vita e della morte di questo uomo libero e tormentato e visionario artista. Uno dei migliori romanzieri italiani.

Cattività Foto scattata dal Vitaliano Trevisan durante la sua reclusione psichiatrica e condivisa sul suo profilo facebook – 6 ottobre 2021

Cronaca della cattività

Dal profilo facebook di Vitaliano Trevisan: raccogliere e mettere in fila i post pubblicati durante la permanenza nella struttura della Azienda Ulss n.8 Berica, dell’Ospedale di Montecchio Maggiore ci fa capire la realtà di quel reparto di psichiatria (ora chiuso), ma anche lo sguardo dello scrittore vicentino. Forse è di qualche importanza anche il post con i pensieri giovanili sul libro di Yukio Mishima “Lezioni spirituali per giovani samurai”.

 

5 ottobre 2021

prigioniero, da domenica, in psichiatria (accertamento psichiatrico obbligatorio) – resisto

 

5 ottobre

per accertare la mia “sanità mentale “ possono tenermi recluso 15 gg – ne sono passati 3 – in teoria potrei chiedere di andarmene, essendo l’accertamento non coercitivo, ma, se lo facessi, come mi è stato fatto chiaramente intendere, rischierei il TSO. perciò, rinuncerò al mio diritto, non chiederò di andarmene, e resterò in osservazione

 

6 ottobre

Cattività

 

6 ottobre

 

14 ottobre

FREE!

 

15 ottobre

ero giovane – il futuro di cui sentivo nostalgia non si era ancora non dato
(saudade)

 

1 novembre 2021


La stampa ha dato evidenza a questo episodio:

La Repubblica

La testimonianza. Vitaliano Trevisan: “Io, un matto trattato senza pietà”

Un uomo che cammina in piena luce, in Italia, è scoperto, nudo, indifeso. \[…\] Cammina come una vittima, e come un colpevole. \[…\] È lì, scoperto, inerme, esposto ai colpi, alle indagini, alle accuse. Non si può né schermire, né difendere. È una condizione terribile: noi Italiani, non ci possiamo difendere, mai, da nulla, né dall’assassino né dal giudice» (Curzio Malaparte, Misura della FranciaIl Tempo, 4 dicembre 1952).

Né tantomeno, in un paese come l’Italia, ci si può difendere dallo psichiatra, specie se, com’è il (fresco) caso di chi scrive, si è soggetti a un A.S.O. (Accertamento Sanitario Obbligatorio), parente stretto del famigerato, e ben più noto, T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio), ovvero accertamento e trattamento “psichiatrico” obbligatorio, giacché sanitario sta qui per psichiatrico.

Iniziamo col dire che, del mio caso personale, non voglio e non posso dire nulla, sia perché trattasi di questione strettamente privata, che peraltro coinvolge anche dei minori; sia perché, anzi direi soprattutto, se dicessi di aver subito l’accertamento psichiatrico in questione, e il successivo internamento coatto, ingiustamente, sarebbe come se affermassi di non essere pazzo, cosa che, com’è noto (vedi il famosissimo Comma 22) non è possibile affermare.

Partiamo dalla fine, ovvero dalla lettera di dimissioni dell’Azienda Ulss n.8 Berica, dell’Ospedale di Montecchio Maggiore, reparto di psichiatria, firmata dal dott. Christian Di Marco, dove, oltre alla data del ricovero, 3 ottobre, e quella di dimissione, 13 ottobre, tra l’altro si legge: «Emesso provvedimento di accertamento sanitario obbligatorio, paziente si recava e ricoverava poi volontariamente in nosocomio per la valutazione ed il ricovero».

Signor no, signore. Volontariamente, da domenica 3 ottobre, ho fatto solo ciò che mi è stato permesso fare, cioè poco o nulla. Sulle circostanze del mio “arresto sanitario”, per ragioni di spazio, dirò solo che l’Aso mi è stato notificato, peraltro in forma esclusivamente verbale, nella stazione dei Carabinieri di Crespadoro, mio comune di residenza, dal comandante della stazione stessa, alla presenza di due vigili urbani del comando di Arzignano, e un medico e due infermieri di un’unità del 118, venuti appositamente in ambulanza per prelevarmi; ambulanza su cui sono costretto a salire “volontariamente”, sotto la minaccia di un Tso.

L’accertamento vero e proprio, avviene infatti nell’Ospedale di Vicenza, dove lo psichiatra di turno, dott. Gardellin, sempre sotto minaccia di un Tso, mi costringe a ingurgitare, seduta stante, due compresse di tavor da 2,5 mg più due compresse di depakin da 500 mg. Così, io che, grazie a una dieta ferrea, all’assunzione di pochi integratori vitaminici a base di erbe, e a una disciplina fisica che seguo scrupolosamente, ormai da un paio d’anni, non assumo più psico-farmaci, dopo circa venti minuti, letteralmente svengo, per risvegliarmi la mattina seguente, intorno alle cinque, in reparto, dove resto fino al pomeriggio verso le sedici, quando un’altra ambulanza mi preleva e mi consegna al reparto psichiatrico dell’Ospedale di Montecchio Maggiore, dove vengo, sempre “volontariamente”, ricoverato.

Cioè imprigionato, perché di questo si tratta, visto che tutte le finestre hanno le sbarre, le porte sono chiuse a chiave e si è strettamente sorvegliati, giorno e notte, da un manipolo di infermieri/e, che in realtà sono, e per la maggior parte anche si comportano, dei secondini, che, come tutti i sorveglianti che si rispettino, sono sempre pronti a sfogare la propria frustrazione — le paghe sono basse e il lavoro ingrato — sui pazienti/prigionieri, approfittando di un regolamento tanto assurdo quanto legalmente discutibile, che prevede il sequestro dei cellulari, che vengono concessi due ore la mattina, dalle 10 alle 12, e due al pomeriggio, dalle 16 alle 18, e dà la possibilità di fumare solo a orari prestabiliti, circa ogni ora e mezza, all’aperto, in uno spazio chiuso, sotto la sorveglianza di almeno un infermiere. E siccome gli infermieri e le infermiere hanno sempre tanto da fare, come più o meno tutti i dipendenti pubblici, gli orari saltano e, per telefonare o per fumare, tocca aspettare, o, nel caso di un’emergenza, rassegnarsi a saltare il turno.

Il reparto, misto maschi e femmine e tutti i generi vari, occupa un’ala del vecchio ospedale — ala ristrutturata, questo s’intende, ma ristrutturata per gara d’appalto al “miglior prezzo di mercato”, cioè al ribasso — , si compone di sei stanze da quattro posti letto cadauna, collegate da un corridoio a L; una piccola sala mensa con annessa cucina, dove si riscaldano e si servono, di malavoglia, le solite schifezze precotte, ovvero la solita pasta scotta, riso scotto, carne e pesce del tutto insapore eccetera, fornite, sempre in appalto al miglior prezzo eccetera, dalla solita cooperativa che ha vinto il primo appalto almeno vent’anni fa, e periodicamente ri-vinto tutti i successivi. Poi c’è la sala comune, che è anche l’ingresso, con un grande tavolo per le attività comuni, e la televisione. In bagni sono in tutto due, ma uno è spesso fuori uso. Ne resta dunque solo uno, cui il prigioniero può accedere esclusivamente se accompagnato da un’infermiera, che gli apre la porta chiusa a chiave e poi aspetta, in anti-bagno, che il disgraziato abbia espletato, in tempi ragionevoli, cioè brevi, i suoi bisogni corporali.

L’angolo inferiore sinistro del telaio in alluminio verniciato della finestra del bagno è squarciato. Bel materiale l’alluminio: lamiere da 3/5 mm, resistenti, leggere, e, così scoperte, taglienti come un rasoio. Appena esco, riferisco la situazione, con una certa veemenza e a gran voce, alla capo-infermiera, che mi guarda sorpresa. L’angolo della finestra è rotto, dice, e allora? E allora, dico, se solo avessi voluto, ora sarei steso con le vene dei polsi recise. E voi, aggiungo quasi urlando, lasciate che i vostri pazienti si chiudano a chiave in bagno con un rasoio a disposizione? Lei non risponde. E per una volta, è il prigioniero a zittire il sorvegliante. Il giorno seguente, quando vado in bagno, noto che lo squarcio è stato malamente rabberciato con del nastro adesivo. Poi, ed è la cosa più importante, ci sono loro, cioè noi: i pazienti psichiatrici. E, sottoscritto a parte, chi sono questi prigionieri?

È presto detto: A., un ragazzo di 25 anni, dentro da quasi un anno, perché a casa non lo rivogliono, così lui, e ha dei precedenti per consumo e spaccio, scappato in Francia per evitare il Tso, e lì, dopo due mesi, arrestato, imprigionato per mesi due, e infine estradato e internato in attesa di essere accolto in una qualche comunità. Poi c’è F, 19 anni, biondo, occhi azzurri, frangia sugli occhi, rapper maledetto che ha tentato il suicidio, e ora è dentro per uso di sostanze stupefacenti e alcol, con cui lego, chiacchiero di musica, e mi metto d’accordo per una session post-prigionia. E G., 23 anni, anche lei bionda, pelle bianchissima, alta, slanciata, bellissime mani che tremano, e bellissimo viso dell’est dagli zigomi alti, tipico di questi luoghi, fresca di tre giorni di rianimazione dopo un tentato suicidio. Ed E, madre sola di 45 anni con problemi di alcolismo, cui i servizi sociali hanno appena tolto il figlio di anni 8. S, 27 anni, padre sardo e madre veneta, e perciò, così lui, sardo in Veneto e veneto in Sardegna, sotto metadone da anni tre, parcheggiato in reparto in attesa di essere accolto in comunità. Poi I. e C., due signore di una certa età, una anche appena operata all’anca, dentro non so per cosa. E infine, isolati in stanza in istato di contenzione, cioè legati al letto, un vecchio demente e un cinquantenne, minorato dalla nascita, che continua ad agitarsi, parlare e urlare, continuamente, giorno e notte, internato da un paio di settimane, per dar modo alla madre, ormai ottantenne, che lo ha sempre tenuto con sé, ma ormai non ce la fa più, di avere un paio di settimane di respiro.

In questa compagnia, e non certo per merito di un personale scontroso e permalosissimo, a partire da psichiatri e psicologi, i quali, se solo ci si sogna di porsi con loro in rapporto dialettico, cioè si sfida il principio di autorità, si irritano e non si peritano di interrompere il paziente alzando la voce, e di zittirlo minacciando un trattamento obbligatorio, ma forse proprio grazie a questo, i miei giorni di detenzione scorrono via abbastanza velocemente. Il pomeriggio di mercoledì 13 ottobre, dopo aver firmato una lettera di dimissioni falsa, abborracciata e piena di inesattezze, vengo rilasciato.

Sono passate un paio di settimane. Lo shock è riassorbito. Sto scrivendo un reportage, come fossi stato non un paziente, ma un inviato speciale in incognito.
A questo riguardo, resta da dire una cosa. È una cosa che tutti più o meno sanno, ma nessuno dice, e che gli statistici vari, sempre così pronti e zelanti quando si tratta di fornire numeri e dati a supporto di questa o quella teoria filo-governativa, si guardano bene dal rilevare, e la cosa che resta da dire è che i ricoverati, tutti i ricoverati, a prescindere da sesso e religione, hanno in comune una cosa: sono tutti, ripeto tutti italiani, di classe proletaria e sottoproletaria. E sono bianchi. Perché c’è poco da fare o da dire: è il proletariato e il sottoproletariato italiano bianco, oggi, a rappresentare la classe sociale meno protetta di tutte, la meno “vista” di tutte. Agli italiani bianchi di classe sociale inferiore, l’assistenza sociale di stato può espropriare i bambini, mentre la psichiatria di stato, dal canto suo, può internare a colpi di Aso e Tso, e trattare ogni cosa a forza di psicofarmaci, senza che nessuna delle innumerevoli associazioni che lotta per i cosiddetti diritti civili abbia niente da dire.

Ai tempi di Berlusconi, in una delle mie rare apparizioni televisive, Dandini mi chiese se fossi di destra o di sinistra. Risposi: forse sono di destra, risposi, ma non di questa destra. Sono passati più di dieci anni. Ora, dopo aver letto Gramsci, se qualcuno mi facesse la stessa domanda risponderei: non so, forse sono di sinistra. Ma non di questa sinistra.

Nota
Ora quel reparto è stato chiuso
Il reparto di psichiatria dell’ospedale di Montecchio Maggiore (Vicenza) ha chiuso lo scorso 3 novembre. L’intera struttura — che ha ospitato la degenza coatta dello scrittore Vitaliano Trevisan il cui racconto riportiamo in queste pagine — è stata trasferita al San Bortolo di Vicenza, stessa azienda sanitaria Ussl 8 Berica. La decisione è arrivata come un fulmine a ciel sereno in Veneto tanto da sollevare le domande del Partito democratico: il capogruppo in Regione Giacomo Possamai ha posto se non dubbi sulla trasparenza dell’operazione, almeno quesiti. «Quali sono le ragioni della chiusura improvvisa del reparto di Psichiatria dell’ospedale di Montecchio e del trasferimento al San Bortolo? E, soprattutto, sarà realmente una scelta temporanea?», si chiede il consigliere regionale del Veneto. Risponde l’Ussl in una nota: «Le degenze del servizio psichiatrico saranno riattivate a Montecchio Maggiore una volta completato il nuovo ospedale». Forse nel 2025.


Il Giornale:

Lo scrittore in psichiatria. “Prigioniero ma resisto. E adesso rischio un tso”


Intervista a Vitaliano Trevisan sul suo ricovero:


Pensieri sul suicidio

Nel 2012 Vitaliano Trevisan “provoca incontri drammatici” con la rassegna “Suicide parade” portando in provincia una serie di scrittori e poeti che si sono confrontati sul tema scabroso del suicidio.

Dieci anni dopo Vitaliano ha deciso di porre fine alla sua vita. Queste sue riflessioni sul suicidio sono state raccolte nel 2012:


Vitaliano Trevisan stava lavorando ad un nuovo libro. La Repubblica ne ha pubblicato un estratto:


C’era una volta la città dei matti

Vitaliano Trevisan è stato anche un attore qui alcune immagini da “C’era una volta la città dei matti…” – miniserie per la RAI sull’esperienza basagliana – in cui Trevisan interpretava il portavoce dell’assemblea degli internati del manicomio di Gorizia: