La terapia del fulmine. Un reading concerto del Wu Ming Contingent su elettroshock e follia.

da Giap

Poco meno di ottant’anni fa, nell’aprile 1938, anno XVI dell’Era Fascista, il dottor Ugo Cerletti lanciava una corrente a 110 volt attraverso il cervello di un essere umano. Nasceva così l’elettroshock – o elettrourto, come l’avrebbero ribattezzato in tempi d’autarchia. La cavia era “un uomo sulla quarantina, fermato alla stazione ferroviaria mentre s’aggirava sui treni senza biglietto”. Per via del suo “comportamento enigmatico” e del suo “strano linguaggio”, la polizia fascista lo aveva condotto in clinica, dove lo avevano schedato come schizofrenico.
A quei tempi era diffusa l’idea che il coma epilettico fosse una buona cura contro alcune psicosi. I medici lo inducevano con un medicinale, il cardiazol, ma Cerletti era convinto di aver trovato un metodo “più pulito”. L’intuizione gli era venuta visitando il mattatoio di Roma e osservando come i maiali venivano storditi con una pinza elettrica, prima di essere sgozzati.

Ugo Cerletti cura un maiale

Quarant’anni più tardi, il 13 maggio 1978, mentre Paolo VI celebrava i funerali di Aldo Moro, il parlamento italiano approvava la legge 180, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Benché le firme in calce al testo fossero quelle di Leone, Andreotti, Bonifacio e Anselmi, il provvedimento è noto come “legge Basaglia”, ovvero “quella che ha fatto chiudere i manicomi”.

I due anniversari si richiamano a vicenda, come le rime alternate di una stessa strofa. L’elettroshock è diventato il simbolo dell’ospedale psichiatrico; di un rapporto terapeutico basato sulla paura, la violenza, l’abuso di potere. Così, nel paese della “legge Basaglia”, molti pensano che sia ormai un lontano ricordo, confinato nelle testimonianze di Alda Merini e Antonin Artaud. Invece sono ancora centinaia i pazienti trattati con terapia elettro-convulsivante – come l’hanno ribattezzata in questi tempi cosmetici. Almeno una decina di strutture pubbliche o convenzionate la somministrano ogni giorno, e il numero sale a più di novanta se si considerano le cliniche private.
Esiste persino l’AITEC – l’associazione italiana per la terapia elettro-convulsivante – che da anni si batte per diffondere l’invenzione di Cerletti, giudicata ormai innocua, salvavita, per nulla più temibile di un defibrillatore. I dubbi sul suo utilizzo vengono screditati come pregiudizi e paure irrazionali, tenebre contro scienza. Il sapere dei pazienti e la loro esperienza sono ridotti a singoli episodi, casi isolati. Si dà per scontato che il consenso alla cura sia sempre informatissimo e volontario, mentre il Comitato Nazionale di Bioetica ricorda “l’irrinunciabilità etica di porre in atto ogni sforzo per acquisire tale consenso”. Ogni sforzo. Ogni sforzo. Ogni sforzo.
I Ministri della Sanità hanno tenuto finora un atteggiamento ondivago: ora tirando il freno con vincoli e cautele, ora invece accelerando verso la meta elettrica, come nel caso di una circolare di Rosy Bindi, datata 1996, dove si dice che la TEC è uno strumento “talora indispensabile”, di “chiara efficacia”, che “non provoca danni fisiologici” e “ha effetti moderati e circoscritti nel tempo”. Studi più recenti non sembrano giustificare tanto ottimismo.

Il murale di Blu sulla sede dell’ex-Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli, oggi occupato e ribattezzato Je so’ pazzo.

Già in passato ci siamo occupati di Franco Basaglia e delle istituzioni per il trattamento della follia.
Il tema si ritrova spesso anche nei nostri romanzi, al punto che qualcuno ce lo ha additato come “filo rosso”, al pari della rivoluzione, di tutta la nostra opera collettiva.
Dev’essere per questo che diversi mesi fa il direttore del Flowers Festival, Fabrizio Gargarone, ci ha proposto di scrivere un reading concerto sull’argomento, da presentare in prima nazionale a Torino, il 7 e 8 luglio prossimi. I concerti del festival si terranno – guarda caso – nel parco della Certosa di Collegno, storica sede del manicomio cittadino. La nostra anteprima, invece, sarà alla Fondazione Merz, in via Limone 24. Il legame tra i due luoghi è il grande affresco che Mario Merz dipinse a Collegno, nel 1984, sul muro del padiglione “dei Furiosi”.

Lo spettacolo, a cura del Wu Ming Contingent, racconta il rapporto tra elettricità e follia, dai tempi delle streghe fino ai giorni nostri, passando per la Prima Guerra Mondiale, lo studio di Cerletti, le idee di Basaglia, le parole di Lou Reed, Ernest Hemingway, Janet Frame, i documenti d’archivio.
Ringraziamo il collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud per il suo lavoro quotidiano e per averci permesso di utilizzare le testimonianze contenute nel libro Elettroshock. La storia delle terapie elletroconvulsive e i racconti di chi le ha vissute. (Sensibili alle Foglie, 2014)
Ringraziamo anche Matteo Petracci – autore del libro I matti del Duce (Donzelli, 2014) – per aver ancora una volta condiviso con noi i frutti delle sue ricerche.

Se l’indemoniato, o la strega, morivano sotto tortura, l’inquisitore diceva che era stato il diavolo a spezzar loro il collo. Lo stesso accade con il malato di mente. Se in manicomio la sua salute peggiora, è perché egli è affetto da incurabile schizofrenia cronica; se gli si spezza la schiena per le convulsioni indotte dall’elettroshock, è perché non vi è alcun trattamento medico privo di rischio.

Thomas S. Szasz, I manipolatori della pazzia, 1972

Qui trovate la presentazione che abbiamo scritto per il sito del Flowers Festival e i link per acquistare il biglietto (10 €).
Lo spettacolo avrà una prima replica il 13 agosto, al Reasonanz di Loreto (AN). Chi fosse interessato ad ospitarlo da settembre in avanti, può scriverci ai soliti contatti (colonna destra).