Se ti ribelli sei matto

Recensioni di due importanti libri recenti su follia e (anti)fascismo, ribellione e repressione.

5964909_339734Matteo Petracci I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista (Donzelli, Roma, 2014, pp. 238, € 33,00)

Mimmo Franzinelli, Nicola Graziano, Un’odissea partigiana – Dalla Resistenza al manicomio (Feltrinelli, Milano, pp. 220, € 18,00)

Seguno le recensioni di Marco Rossi, Anna Luisa Santinelli,  e Pietro Spirito…

da A Rivista anarchica anno 45 n. 397, aprile 2015

Se ti ribelli, sei matto

di Marco Rossi

I pazzi vengono definitivamente riconosciuti dagli psichiatri per il fatto che dopo l’internamento mostrano un comportamento agitato.
La differenza tra gli psichiatri e gli altri psicopatici è un po’ come il rapporto tra follia convessa e follia concava.

Karl Kraus

Per molto tempo, anche nell’ambito delle ricerche sulla repressione del dissenso e le persecuzioni subite dagli oppositori del regime fascista, il ricorso sistematico alla psichiatria e alla reclusione manicomiale è stato un aspetto storiografico sottaciuto e sottostimato, come se certi “metodi” fossero una prerogativa di altri sistemi totalitari, quali quello nazista o quello staliniano. D’altronde, le stesse vittime, una volta tornate alla cosiddetta normalità dopo la Liberazione, il più delle volte autocensurarono il racconto delle loro vicissitudini attraverso l’arcipelago manicomiale, un po’ per evadere anche dal ricordo opprimente di tale esperienza, un po’ perché comunque probabilmente in molti vi era il recondito timore di essere ancora presi per pazzi.
Eppure è proprio durante il ventennio fascista che si registra l’incremento dei cosiddetti “manicomi criminali”, con la costruzione di nuove strutture e di nuove sezioni giudiziarie presso istituti “civili” già esistenti, nonché l’aumento – davvero esponenziale – del numero degli “alienati” internati a seguito di sentenza penale oppure in applicazione della legge n. 36 nel 1904 (rimasta, incredibilmente, in vigore sino al 1978!) che prevedeva e regolava l’internamento negli ospedali psichiatrici di quanti, per presunta pericolosità sociale o pubblico scandalo, vedevano così le proprie vite in totale balia del giudizio – e del pregiudizio – di pretori, procuratori, prefetti, questori, podestà e direttori di manicomi.
Nonostante che tale legge fosse stata emanata dal governo del liberale Giolitti, l’individuo vedeva annullata ogni tutela delle proprie libertà ed era consegnato inerme all’arbitrio statale: essa risultava a tutti gli effetti un dispositivo legale volto a togliere dalla circolazione i soggetti “devianti”; infatti, la loro “colpa” e la loro “malattia” discendeva generalmente da una supposta pericolosità legata all’essere improduttivi oppure ad eventuali turbamenti dell’ordine pubblico.
Il fascismo, perciò, accolse pienamente questo impianto ideologico e, soprattutto dal 1927, lo inserì nel suo stato di polizia, tanto che «fissò nel Testo unico delle leggi d Ps (prima del 1926 e poi del 1931) le regole da attivare per il controllo dei degenerati e delle classi pericolose, oltre che dell’alienazione mentale», mirando a colpire ugualmente sospetti oppositori politici, omosessuali, oziosi, nomadi, alcolisti e altri soggetti marginali.
Particolare non secondario, proprio in pieno fascismo, nel 1938 lo psichiatra Ugo Cerletti (tessera n. 0694914 del Pnf) assunse notorietà mondiale per «l’italianissima invenzione» dell’elettroshock. Ad essere colpiti, temporaneamente o in maniera definitiva, da misure di costrizione manicomiale furono circa un migliaio di uomini e donne, di varia tendenza o appartenenza politica, ritenuti pericolosi per la dittatura di Mussolini: se il termine ha un senso, nella stragrande maggioranza dei casi non si trattava di «malati di mente», ma di «avversi al regime»; in non pochi casi, invece, i disturbi psichici erano diretta conseguenza delle violenze fisiche e delle torture mentali a cui furono sottoposti nel corso di spedizioni punitive, in carcere, al confino o dentro i non-luoghi manicomiali.
Il recente saggio di Matteo Petracci I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista (Roma, Donzelli, 2014, pp. 238, € 33,00) non solo mette in luce questo aspetto misconosciuto, ma è la più consistente e approfondita ricerca sull’argomento, non solo per quanto riguarda l’analisi dei meccanismi burocratici, polizieschi e psichiatrici che gestirono questi autentici gironi infernali, ma riesce anche, con sensibilità e rigore, a farci conoscere le r/esistenze umane che sono rimaste schedate e rinchiuse per oltre settant’anni nei fascicoli del Casellario politico centrale e nelle cartelle cliniche.
E raffrontando queste due dimensioni, è possibile riscontrare come i funzionari di polizia ricorressero alle diagnosi pseudo-mediche e alle categorie lombrosiane, mentre gli psichiatri accettavano – con rarissime eccezioni – di svolgere un ruolo di inquisitori politici, così come le figure degli infermieri e dei secondini tendevano a confondersi dietro sbarre che, purtroppo, non appartengono ancora al passato. Discorso analogo per quanto riguarda l’esile confine che separava il trattamento punitivo da quello terapeutico, con strumenti e pratiche degne dei supplizi del Sant’Uffizio.
Tra queste storie, quelle che mi hanno maggiormente colpito sono senz’altro quelle del militante Secondo B., ritenuto «infermo di mente per mania politica» in quanto «affetto da “morbo di Lenin”» e dell’ex-ardito Gaetano M., giudicato pericoloso «per la sua cultura e la grande passione per le teorie anarchiche», ma soprattutto quella dell’operaia Isolina M., diagnosticata ovviamente isterica per le «sue manifestazioni tumultuarie di impulsività», ma che alla domanda su cosa intendesse per fedeltà, aveva maliziosamente risposto che, nell’attività politica (alludendo a quella sovversiva), significava «non dire quello che si fa».


da Carmilla 9 aprile 2015

Un’odissea partigiana: intervista a Mimmo Franzinelli

di Anna Luisa Santinelli

Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Mimmo Franzinelli, Nicola Graziano, Feltrinelli 2015, pp. 220, € 18,00

Al termine del secondo conflitto mondiale, in quel periodo complesso che vede l’Italia transitare verso la democrazia, la magistratura processa centinaia di ex partigiani per reati commessi durante la lotta al nazifascismo e nell’immediato dopoguerra.
Questa situazione contraddittoria è favorita dalla mancata epurazione fascista (magistrati, funzionari, poliziotti del passato regime non vengono rimossi dai loro incarichi) e condizionata dall’avvio di una nuova fase storica, la Guerra fredda, appena cominciata.
La fallita estromissione di personalità colluse con la dittatura consente un clima di rivalsa e di pregiudizio antiresistenziale, che si concretano nell’uso strumentale del dispositivo giuridico. In estrema sintesi, «il sistema giudiziario rimane quello forgiato nel Ventennio».
Per tutelare gli antifascisti incriminati, gli avvocati della difesa ricorrono alla seminfermità mentale, suggerendo il manicomio come alternativa al carcere. L’accorgimento si rivelerà ben presto controproducente.
Nel 1946 l’amnistia Togliatti, da cui la detenzione manicomiale è esclusa, genera uno scenario paradossale ma emblematico: la scarcerazione per i fascisti e l’esonero dall’indulto per i partigiani reclusi in manicomio. Riguardo poi l’applicazione dell’amnistia, fin da subito cifre e modalità parlano chiaro:
«Il 30 giugno 1946, a otto giorni dall’emanazione, l’amnistia Togliatti è stata applicata a 7106 fascisti e a 153 partigiani. La giustizia della neonata Repubblica italiana, con una mano rialza i collaborazionisti, con l’altra percuote i partigiani».

Nel saggio Un’odissea partigiana, Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano focalizzano la loro attenzione sull’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) di Aversa; avvalendosi di fonti inedite, i due autori ricompongono le esistenze drammatiche dei “pazzi per la libertà”, riportando alla luce una vicenda ignorata che racconta la storia di una sotterranea e persistente guerra civile.

Nelle prime pagine del saggio affrontate l’argomento della fallita epurazione fascista nell’immediato dopoguerra. Perché il processo di defascistizzazione non si è realizzato?
Il fascismo è durato vent’anni, ha imposto l’identità tra partito e nazione, tra fazione e patria, è caduto per una guerra persa e non per una rivoluzione… In un primo tempo, sin dal 1944, la nuova classe dirigente voleva attuare un’estesa epurazione, che avrebbe coinvolto milioni di persone, poi, gradualmente, gli elementi di continuità dello Stato si sono imposti e nell’apparato pubblico sono tornati o sono rimasti in servizio i magistrati, i poliziotti e i prefetti che avevano servito Mussolini con zelo repressivo. Si sarebbe invece dovuto puntare in modo selettivo ai vertici: gerarchi e alti funzionari in primis. Ad un anno dalla fine della guerra, l’amnistia Togliatti ha praticamente chiuso la questione, grazie ad interpretazioni incredibilmente estensive da parte della magistratura che – guidata dalla fascistissima Corte di Cassazione – prosciolse fior di criminali. Ci fu dunque, dentro la discontinuità fascismo/democrazia, la continuità istituzionale sul piano delle carriere dei funzionari pubblici e il mantenimento in vigore di norme liberticide quali il Codice penale emanato dal guardasigilli Alfredo Rocco nel 1930: venne parzialmente modificato soltanto nel 1955 e sostituito da un nuovo Codice nel 1988.

Chi sono i “pazzi per la libertà” che finiscono reclusi nell’Opg di Aversa?
Nel 1943-45 ci fu, nell’Italia centro-settentrionale, una guerra civile feroce, che non terminò d’incanto il 25 aprile. Il ritorno alla civile convivenza fu un processo travagliato, nel quale si esercitarono anche vendette di vario genere. Gli avvocati di numerosi giovani partigiani accusati di omicidio per episodi accaduti durante la guerra o a ridosso della Liberazione, chiesero per i loro assistiti il riconoscimento della seminfermità mentale, per diminuire la pena detentiva. L’evoluzione degli eventi dimostrò che questo calcolo era errato: l’amnistia Togliatti ridusse o cancellò la pena detentiva ma non incise sulla pena accessoria dei 3 o dei 5 anni di detenzione in manicomi criminali. Di conseguenza, persone assolutamente sane di mente dovettero sperimentare la detenzione in strutture assai peggiori del carcere, in località assai lontano da casa, trovandosi isolate in una situazione pazzesca…

L’internamento manicomiale di soggetti invisi al regime fascista era una pratica consolidata. Rispetto a tali prassi detentive, l’Italia postbellica presenta corrispondenze con il fascismo?
Il ventennio mussoliniano ha rappresentato un sensibile arretramento sul piano delle istituzioni repressive, adattate ai progetti del potere e gestite con raffinata e quotidiana crudeltà. Diversi oppositori politici furono rinchiusi in manicomio… Il ritorno alla democrazia non rappresentò, almeno nel medio termine, il superamento di quei metodi: manicomi e carceri continuarono a risentire del clima e delle normative d’epoca fascista. La classe politica repubblicana non giudicò una priorità le riforme delle “istituzioni totali”. Soltanto negli anni ’60, dapprima con il centro-sinistra e poi sull’onda della contestazione operaia e giovanile, si modernizzarono strutture dove ancora persisteva la visione mussoliniana.

L’impegno solidaristico di Angelo Jacazzi è stato fondamentale per i partigiani reclusi ad Aversa. Precisamente, che ruolo ha svolto Jacazzi in queste tragiche vicende?
Angelo Jacazzi, all’epoca giovane segretario della sezione di Aversa (Caserta) del Partito comunista, ha svolto un importante lavoro, solidarizzando con gli ex partigiani internati nel manicomio della sua città: li ha rincuorati, ne ha segnalato la situazione ai parlamentari della sinistra e ai comitati di solidarietà, ha rappresentato il tramite tra i “pazzi per la libertà” e le loro famiglie. Negli ultimi anni, accortosi che quell’esperienza era assolutamente sconosciuta, ha consegnato al magistrato Nicola Graziano il suo archivio, con i carteggi e varia altra documentazione sulla preziosa intermediazione da lui attuata su base volontaria, per altruismo. Partendo da quel materiale, abbiamo reperito ulteriore documentazione e scritto il libro.

A pag. 204 scrivete «La storiografia ha sino a oggi ignorato il fenomeno dei “pazzi per la libertà”, confinato entro il recinto delle vicende personali e dei lutti familiari […]»
Il vostro saggio può dirsi esaustivo o l’argomento deve essere ulteriormente indagato?

Questo è un lavoro esplorativo. Il magistrato Nicola Graziano ed io abbiamo intrapreso e indicato una nuova strada. Il libro, nella parte preponderante, si basa sull’analisi del materiale conservato nell’ex manicomio criminale di Aversa. Attraverso l’esame di ogni altro archivio degli Opg (enti in via di smantellamento), sarà possibile arricchire il quadro, individuando una quantità di situazioni che ci costringono a rivedere il giudizio sull’Italia che, ufficialmente nata dalla Resistenza, usava il pugno di ferro contro ex partigiani e la carezza verso ex fascisti. Odissea partigiana ha insomma la funzione di apripista. D’altronde abbiamo già avuto riscontri in questo senso, ad esempio su ricerche ora avviate presso l’ex manicomio di Reggio Emilia.


da Il Piccolo del 22 febbraio 2015

Tutti pazzi per la libertà l’odissea dei partigiani rinchiusi in manicomio

di Pietro Spirito

Il partigiano Mario Della Balma, nome di battaglia “Barbis” o anche “Barbisùn”, il 26 agosto 1944, sulle rive del Lago di Agaro, assieme a altri compagni delle brigate Garibaldi partecipa all’agguato che costa la vita a due agenti forestali della IV Legione della Guardia nazionale repubblicana, che sembra avessero una vecchia ruggine con il capo del commando partigiano, Massimo Schmit, pizzicato più volte a fare il bracconiere. Schmit in seguito verrà ucciso dai nazisti, ma subito dopo la guerra i carabinieri avviano le indagini per vederci chiaro sulla morte dei due agenti forestali. Presto vengono individuati gli alti partigiani che avevano partecipato all’azione, fra cui appunto Mario Della Balma, il quale, interrogato, spiega di aver agito contro due fascisti, due nemici, in una normale azione di guerra.

La motivazione non convince i giudici, che alla fine condannano Della Balma e gli altri garibaldini a dodici anni di reclusione per omicidio volontario continuato e aggravato. A “Barbis” viene riconosciuta la seminfermità mentale, e l’ormai ex partigiano finisce nelle prigioni di Alessandria. Nel febbraio del 1954 la Corte d’Appello di Torino, in riconoscimento del servizio nella Resistenza, condona a a “Barbisùn” la pena residua ma, considerato il “vizio parziale di mente”, gli infligge tre anni di internamento nel Manicomio giudiziario di Aversa, dove l’ex partigiano rimarrà fino al gennaio del 1957. Dopo undici anni di detenzione fra carcere e manicomio Mario Della Balma potrà tornare a casa, sposare la sua fidanzata Angiolina, riprendere il lavoro dei campi, il suo mestiere di artigiano del legno e vivere serenamente fino all’età di settantaquattro anni.

La storia di Mario Della Balma è una delle decine e decine di vicende giudiziarie che coinvolsero i cosiddetti “pazzi per la libertà”, vale a dire ex partigiani che nell’immediato dopoguerra vennero processati per azioni considerate non di guerra, ma crimini comuni, e che gli avvocati fecero passare per seminfermi di mente perché questo era l’unico modo per ottenere sconti di pena, salvo mandare per brevi o lunghi periodi questi ex combattenti in manicomio. “Pazzi per la libertà” li definiscono appunto Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, il primo storico e l’altro magistrato, nel loro libro “Un’odissea partigiana – Dalla Resistenza al manicomio” (Feltrinelli, pagg. 220, euro 18,00) dove gli autori ricostruiscono una realtà poco nota: centinaia di ex partigiani, accusati di gravi reati commessi durante la lotta clandestina – perlopiù imputazioni relative a casi di “giustizia sommaria” contro persone sospettate di spionaggio o coinvolte nell’apparato repressivo fascista – che per una strategia difensiva impostata da magistrati perlopiù di sinistra, venivano riconosciuti seminfermi di mente e spediti in manicomio.

Quando nel 1946 l’amnistia Togliatti aprì le porte alla gran massa di fascisti condannati o in attesa di giudizio, anche i partigiani poterono beneficiare del provvedimento. Tutti tranne quelli riconosciuti seminfermi di mente, perché l’amnistia non si applicava alla detenzione manicomiale. Perciò centinaia di ex partigiani rimasero in manicomio pur essendo perfettamente sani di mente.

Così, notano gli autori, «nell’Italia del 1946, condizionata dalla Guerra fredda e dall’anticomunismo, centinaia di ex partigiani si ritrovano inquisiti, arrestati e processati come criminali comuni. Il disconoscimento della legittima belligeranza (…) rappresenta l’antefatto giuridico per la perseguibilità penale delle azioni resistenziali».

Franzinelli e Graziano partono dalla vicenda dei “pazzi per la libertà” per dimostrare come, dal ’46 in poi, l’amministrazione giudiziaria e buona parte degli apparati di polizia furono protagonisti di una vera e propria restaurazione, con il ricollocamento sugli scranni dei tribunali e ai vertici delle forze dell’ordine di uomini già compromessi con il regime. Una delle ragioni per cui la Cassazione arrivò ad annullare il 90 per cento delle sentenze contro fascisti e collaborazionisti.

Almeno centomila ex partigiani, invece, finirono in un modo o nell’altro nelle maglie della giustizia subito dopo la guerra. E «nella primavera del 1955 – scrivono Franzinelli e Graziano -, decennale della vittoria sul fascismo, i Comitati di solidarietà democratica diramano le cifre della repressione antipartigiana: 2474 fermati, 2189 processati, 1007 condannati».

È in questo quadro che tanti ex combattenti per la libertà vengono rinchiusi in manicomio. E molte volte ci restano, diventando spesso pazzi davvero. Le loro storie Franzinelli e Graziano le riportano alla luce dopo aver messo le mani su alcuni archivi. Uno in particolare, quello, straordinario, di Angelo Maria Jacazzi, classe 1926, un attivista comunista che prese a cuore la sorte degli ex partigiani ricoverati nel manicomio di Aversa, aiutandoli nella loro odissea giudiziaria. Jacazzi ha messo a disposizione degli studiosi le sue carte, dossier nominali con foto, lettere, copie di sentenze e ritagli di giornale che hanno permesso a Franzinelli e Graziano di ricostruire nel dettaglio alcune di queste storie.

Oltre alla vicenda di “Barbisùn” il libro racconta i casi di Giuseppe Giusto, accusato di aver ucciso un prigioniero che cercava di scappare, e che rimarrà in manicomio fino al 1957, restandone segnato per sempre; di Aureliano Gabrielli, che uccise per reazione un dentista compromesso con le Squadre d’azione Mussolini. E poi i casi di Gian Piero Carnaghi, Gustavo Borghi, Guido Acerbi. E di una donna, la giovane Zelinda Resti, ingiustamente accusata di omicidio a guerra finita. Rinchiusa in carcere, venne spedita al manicomio di Aversa “per motivi di salute”. Qui ne passò di tutti i colori, comprese le insistenti attenzioni sessuali da parte di una delle suore, prima di essere assolta in appello con formula piena.

Ma questi, appunto, sono alcuni casi. Solo nell’archivio di Aversa, fra migliaia di incarti, gli autori ne hanno individuati altri dodici. E nel resto d’Italia? «Manca – scrivono gli Franzinelli e Graziano -, per gli altri manicomi della penisola, qualsiasi indagine a tale riguardo». «La storiografia – concludono – ha sino ad oggi ignorato il fenomeno dei “pazzi per la libertà”, confinato entro il recinto delle vicende personali e dei lutti familiari, mentre dispiega una valenza sociale e politica in un’Italia scombinata, ben più complessa e contraddittoria di quanto s’immagini».